Lo sapevano tutti. Bastava salire sulla scala antincendio fino in cima e dare un bel calcio alla botola di ferro per entrarci dentro.
Lo sapevamo noi, che di quel teatro abbiamo respirato la scena e ascoltato i suoi silenzi alla fine di interminabili prove quando, non sapevi più se uscendo avresti trovato ad aspettarti il giorno o la notte. Lo sapevano sicuramente i ragazzi che negli ultimi anni vi si erano intrufolati per bere una birra adrenalinica, mangiare una pizza dal gusto decadente, fumarsi una canna in attesa del fantasma dell’opera, provare a scrivere uno slogan trasgressivo in un luogo nel quale praticamente nessuno ti può beccare.
Un bel calcio alla botola, poi giù per la ripida scala di cemento e calcinacci e da lì direttamente sul palcoscenico per godere di una prospettiva privilegiata sul nuovo arredo del teatro: lattine, tentativi di falò, scarabocchi e carotaggi.
Era chiaro che una volta entrato lì dentro quel luogo ti chiedeva, anzi ti implorava, di lasciare un segno, una testimonianza della tua identità. Ricordo perfettamente la nostra sensazione davanti a quell’arcipelago di monnezza che fluttuava nella penombra della platea. Non vedavamo quei rifiuti come degli sfregi, ma come delle firme, delle affermazioni: “Io sono questo” diceva il giovincello lanciando la siringa in galleria, oppure: “Io vi lascio questo trancio di ricotta e salamino. Oh Apollo! Oh Dioniso! A testimonianza del mio passaggio nel vostro tempio” e già che c’era lasciava anche il cartone.
Chiaramente è andata così e chiaramente la ricotta era per Apollo e il salamino per Dioniso.
Qualcosa ci accomunava a chi ci aveva preceduto. Anche noi eravamo entrati per lasciare il segno. Un’ultima volta. Come attori, come spettatori, come elementi d’arredo di quel teatro in procinto di essere demolito, che sarebbero sopravvissuti alla sua distruzione solo perché (s)oggetti mobili, smontabili, trasportabili, come le poltroncine di legno della platea.
D’abitudine, ogni volta che realizziamo una replica di un nostro spettacolo, cerchiamo di adattarci al luogo della rappresentazione. Così abbiamo iniziato a recitare su quei detriti. Non per un pubblico. Non per un applauso. Ma per il ricordo. Perché in quel luogo abbiamo scritto dei momenti che hanno segnato la nostra storia personale. Per ringraziare Apollo e Dioniso. Perché era nostro dovere.
Non si demolisce un teatro senza prima regalargli un ultimo sogno, un’ultima illusione.
Alla fine ci sentivamo in pace. Ci ha un po’ commosso quell’applauso finale che abbiamo fatto alle pareti spoglie. Applauso che pareva ribadire battito dopo battito: adesso sì è finita, possiamo salutarci.
Abbiamo raccolto i nostri costumi di scena e ce ne siamo andati, come attori che non hanno nulla da nascondere, dalla porta principale.
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