Londra è una città multiculturale dove si incontrano e convivono persone di etnie diverse, ognuna con la propria identità e cultura. Spesso concentrate nella periferia difficilmente hanno la possibilità di spostarsi e andare a vivere nei quartieri centrali appannaggio dei londinesi. Potremmo quindi dire, che la città cambia a seconda dei quartieri e della gente che vi abita. Due mondi: centro e periferia, periferia e centro. Questa divisione non è altro che il prodotto del modello di integrazione britannico basato sul multiculturalismo: quartieri fortemente etnicizzati e una giustapposizione di culture diverse che però, probabilmente, non hanno ancora provato a cercare un dialogo e un avvicinamento reciproco, come sostiene la giornalista Mariarita Cardillo in un interessante reportage. Nel tentativo di voler andare oltre questo modello e costruire modalità “altre” di integrazione (per esempio la Black British mixed race familia) ci domandiamo se Londra, oggi, potremmo definirla anche interculturale e transculturale? Laddove «le prassi politiche inter/trans culturali si differenziano da quelle multiculturali proprio per il loro fine che è l’incontro, lo scambio e il confronto tra culture diverse per arricchirsi di nuovi elementi senza perdere la propria identità piuttosto che il riconoscimento dei diritti degli specifici gruppi sociali». (Cinquepalmi, L., Multiculturalismo e Interculturalismo)
Sintetizzando: una cultura è viva tanto più si contamina, mescola e integra con altre.
E a questo ripensavo, leggendo Gone too far, testo d’esordio della drammaturga anglo-nigeriana Bola Agbaje, andato in scena per la prima volta al Royal Court’s Theatre Upstairs nel febbraio 2007. Bola esce da quella fucina creativa che è il Young Writers’ Programme del Royal Court, nato a sostegno dei talenti emergenti. La Agbaje ha dato il via con la sua voce originale ad un’ondata di autori che hanno voluto puntare l’attenzione sul tema dell’integrazione razziale e dell’appartenenza, riflettendo sul mito della comunità nera e sulla subcultura di “strada”.
Ma che cos’è la comunità nera? Chi sono i fratelli e le sorelle nere? Per l’autrice non è una comunità legata da un forte senso di appartenenza dovuto al colore della pelle (fratelli neri, mulatti), non è nemmeno una comunità, sono singoli individui che cercano di affermare la propria identità afro-nigeriana, giamaicana, indiana, pakistana, bengalese, meticcia, inglese senza in realtà volersi distinguere dalla massa. I personaggi di Gone too far sono adolescenti che vivono le tensioni e le contraddizioni della loro età e della vita di strada. Stilosi nei vestiti e nelle acconciature, indossano felpe con cappuccio e scarpe da ginnastica alla moda (Nike Air), giocano alla PS2, parlano slang che declinano in rappate e mosse di ballo e hanno nomi evocativi che già li connotano: Paris, Armani, Razer (colui che distrugge), Flamer (colui che si infiamma), Blazer (colui che brucia). Fa da sfondo alla storia (quasi ad essere un ulteriore personaggio) la periferia, un quartiere degradato nel sud di Londra, tutto scritte sui muri, palazzoni dalle facciate malmesse e negozi di bengalesi/indiani/paki sempre aperti. Le strade sono il perno dell’azione dove si consumano guerre fra bande per il controllo del territorio e molto sottotraccia riverbera anche la questione dei musulmani che si fanno esplodere.
Il testo si apre in una minuscola camera da letto dove due fratelli di colore si sono appena conosciuti. Yemi è un sedicenne del sud di Londra dal bell’aspetto che pensa di sapere tutto sulla vita. Suo fratello maggiore, Ikudayisi, è appena arrivato dalla Nigeria dove è cresciuto e ha una prospettiva completamente diversa sulla vita e il mondo. Laddove Yemi è testardo e irascibile, sempre pronto alla sfida e a cacciarsi nei guai provocandoli lui stesso, Ikudayisi che ha già visto troppo per i suoi diciotto anni, cerca la pace e di evitare i problemi. I due escono per andare a comprare il latte e incontreranno nel loro peregrinare una società cinica, diffidente, rancorosa, pronta ad esplodere da un momento all’altro: un negoziante del Bangladesh sospettoso nei confronti di Yemi che indossa un cappuccio, neri africani e neri giamaicani che si accusano vicendevolmente di razzismo ma a loro volta sono razzisti nei confronti degli indiani ed infine dei grotteschi poliziotti che alimentano l’ostilità verso le istituzioni con la loro saccenza e superiorità.
The Shopkeeper puts his hands in Yemi’s face to stop him.
SHOPKEEPER: Still have hood.
YEMI: I ain’t ere to teef nothing. I just need to buy somink. So move, man!
SHOPKEEPER: I don’t want trouble.
YEMI: And no one ain’t looking for trouble, boss. Just let me in.
SHOPKEEPER: Please, I don’t want to call the police.
YEMI: What! You’re making me mad now. Why are you talking bout police for? We only here to buy something, you get me?… Boss, stop the long ting and let me in.
SHOPKEEPER: Take off hood.
YEMI: Just move!
SHOPKEEPER: Please, no trouble.
YEMI: Don’t you know nothing about human rights? You of all people should understand where I’m coming from – being a Muslim and dat.
SHOPKEEPER: Are you Muslim?
YEMI: No I’m not a Muslim, innit?
SHOPKEEPER: Yes.
YEMI: See, that’s what I’m saying, we’re the same peoples.
SHOPKEEPER: I no black, I Bangladeshi.
YEMI: I know you’re Indian –
SHOPKEEPER: Bangladeshi.
YEMI: Don’t get it twisted, blud. Man, oh man, don’t care where you’re from. What I’m saying is I know you feel oppressed and dat when mans tell you, you can’t wear your head ting in certain places.
It the same like me! Bare people going around thinking you’re gonna do dem something when all we wanna do is get on with our life. I understand you, blud!
SHOPKEEPER: Then no hood.
[…]
YEMI: How do I know it ain’t a bomb factory you got back there? That why you ain’t tryna let me in.
SHOPKEEPER: I NO BOMBER, I NO SUPPORT TERRORIST! I LOVE THIS COUNTRY, I NO TERRORIST. NO BOMB IN MY SHOP, NO BOMB IN MY SHOP.
YEMI: Don’t start coming nears me now, you might try blow me up –
SHOPKEEPER: You mutta mutta, you lie, no bomb in my shop –
YEMI: Look at the way you acting. You see, you see, that’s why you of all people shouldn’t judge, cos you’re not liking it when you’re getting judged.
SHOPKEEPER: I NO EVER SAY BAD THING ABOUT ENGLAND.
YEMI: Calm down, man, I was just making a point. Just cos I got a hood on my head don’t mean I’m tryna rob nobody. Some ways I know just cos you’re Indian don’t mean you’re a BOMBER!
SHOPKEEPER: I TELL YOU ALREADY I NO BOMBER! I PROUD TO BE ENGLISH. NO TROUBLE, NO TROUBLE. SHOP CLOSE, SHOP CLOSE.
(Gone too far, Bola Agbaje, Bloomsbury Methuen Drama, Scena 2, pag. 295-296-297)
La forza di questo testo è data dall’ironia, tutta la commedia infatti pur virando nel dramma, è costellata da situazioni funny e paradossali, da momenti cantati e ballati e da un’abile costruzione dei personaggi. La Agbaje, infatti, si diverte a giocare con gli stereotipi laddove la madre è la classica Mami di Via col Vento e i vari Razer, Flamer e Blazer i bulletti di strada un po’ smaliziati e un po’ tonti. Ad accendere la miccia tra neri giamaicani (che non si considerano neri!) e neri africani sarà Armani, la quindicenne anglo-giamaicana razzista, boriosa e attaccabrighe. Di seguito un piccolo estratto:
[…]
As Razer gets distracted Yemi goes for the knife. They get into a scrap and Yemi gains control over it.
YEMI: Who is bad now, who bad now?
YKUDAYISI: Yemi, put it down, you going to hurt somebody. It wasn’t him.
ARMANI: Yeah, listen to your brother.
YEMI: BE QUIET. YOU’RE ALWAYS FUCKING TALKING. Don’t you know when to keep your mouth shut, uh? You really think you’re bad, innit.
ARMANI: No.
He waves the knife at her.
RAZER: Yemi, I swear – put it down.
ARMANI: No, please!
YEMI: See, you’re scared now. I thought you were a bad girl. African this and African that. You’re not better than me now, are you? Carry on running your mouth, see if you don’t get wet.
YKUDAYISI: Why can’t you listen to me? I keep telling you – what you are fighting for is not worth it.
YEMI: Don’t you get it? I don’t care. These lots go on like they run this fucking estate. It about time people sees who really runs this estate. These jams think they are better dan us Africans. Dat we ain’t shit. That’s why they robbed you. It something they do all the time. They treat Africans like they are beneath them. I AIN’T BENEATH NO ONE.
RAZER: Look, I’m tryna stay out of trouble, I ain’t robbed no one in time.
YEMI: Well, you messed with the wrong person.
YKUDAYISI: I didn’t come from Nigeria to be a part of this. We are all BALCK! WE ARE ALL BALCK AND YOU ARE ACTING LIKE WE ARE ALL DIVIDED! It needs to stop now. We need to stop this nonsense. Why are we always fighting each other? Why can’t we just get along? I just want everyone to get along. Yemi, you tell me you are free, be free to make the right choice. Don’t go down the wrong road. It’s your choice, make the right choice. GIVE ME THE KNIFE.
(Gone too far, Bola Agbaje, Bloomsbury Methuen Drama, Scena 10, pag. 366-367)
Da segnalare il lavoro che l’autrice fa sul linguaggio e sul ritmo dove mescola e rappa lingua inglese, slang anglo-africano/giamaicano e Yoruba. Nella scena finale, Yemi, che fino a quel momento ha negato, per vergogna, la sua identità africana, decide di indossare il tradizionale vestito nigeriano con le Nike e il cappello da baseball, concretizzando in pieno lo spirito del modello di integrazione transculturale: è possibile, quindi, riconoscere e accettare le proprie origini integrandole con la cultura urbana. Direi che questa “nuova” identità ci offre un raggio di speranza!
Gone too far non è mai stato tradotto e messo in scena in Italia. L’autrice ne ha curato la trasposizione cinematografica nel 2013 che però non è fedele al testo.
Veronica Cumaro
Giornalista e drammaturga. Nata a Udine, ha iniziato ad appassionarsi di teatro e cinema da giovanissima. Laurea al D.A.M.S. di Udine, Master in Storytelling & Performing Arts a Torino, partecipa al workshop in playwriting del Royal Court Theatre di Londra organizzato dal Piccolo Teatro di Milano. Si occupa di comunicazione ed organizzazione di eventi in ambito culturale e dello spettacolo. Collabora, inoltre, con la Scuola Holden di Torino, con diverse riviste on-line e con alcune compagnie di musica e teatro-danza.
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