Rachel Atkins e la sua drammaturgia Black Like Us sono le protagoniste di questo articolo a cura di Veronica Cumaro.
Le rubriche di MateâriuM | Plays&CO | a cura di: Veronica Cumaro
In un periodo storico in cui il razzismo e la violenza contro donne, neri e migranti sono di grande attualità, assume ancora più significato il testo teatrale che mi è stato portato in dono dagli Stati Uniti. Sto parlando di Black like us di Rachel Atkins, vincitore nel 2014 del Gregory Awards, il più importante premio teatrale dello Stato di Washington ed in scena lo scorso febbraio a Rochester, New York. La genesi del testo è particolare: nato su commissione di un teatro di Seattle in forma breve di 10 minuti, è stato poi sviluppato e prodotto dall’Anne Theatre come atto unico ed infine approdare, nel 2013, al testo definitivo di due atti grazie alla produzione congiunta tra l’Anne Theatre e il Brown Box Theatre.
L’interessante prefazione di Allyson Hobbs, famoso per aver studiato a fondo il Racial Passing negli Stati Uniti – pubblicando il libro A History of Racial Passing in American Life edito dalla Harvard University Press nel 2014 – offre al lettore un approfondimento del fenomeno passando in rassegna i secoli che l’hanno visto diffondersi.
Sapete cos’è il Racial Passing? Io personalmente ne sapevo poco, avendone sentito parlare in modo molto superficiale in passato. Bene, il Passing che letteralmente significa Passaggio razziale, è quella «pratica, diffusasi nel Novecento, grazie alla quale individui dalla collocazione razziale non ben definibile» ma non appartenenti alla razza bianca dominante, ad esempio pensiamo alle persone mulatte, creole o di colore nate con la pelle chiara, «si facevano passare per “bianchi”», spesso abbandonando completamente le famiglie d’origine e il loro passato, «per non sottostare a discriminazioni e violenze» (Camaiti Hostert, A., 2006, PASSING. Dissolvere le identità, superare le differenze, Meltemi Editore, Quarta di copertina). Le conseguenze di questa scelta consapevole erano disastrose sia a livello personale che sociale
«The practice of passing has two sides: passing produces painful losses, but also, paradoxically, is the source of levity and humor».
(Black like us, Rachel Atkins, Original Works Publishing, Prefazione, pag. 7)
Il testo della Atkins, partendo da questa scelta forte che fa una delle sue protagoniste e che condizionerà la vita di tutti gli altri personaggi, indaga temi complessi ed interessanti con umorismo ed ironia. L’identità razziale, il razzismo, la segregazione, i diritti civili, i segreti e le bugie, il concetto di tolleranza sono visti attraverso la lente della famiglia perno di tutta la narrazione. All’autrice, infatti, non interessa tanto il risvolto psicologico dei personaggi quanto il contesto storico e sociale in cui sono immersi e da cui sono inevitabilmente influenzati.
I protagonisti della storia sono due sorelle di colore, Florence e Maxine Walker, e tutta la loro discendenza bianca e nera. La prima è nata con la pelle chiara e sembra essere la più timida e tradizionale, mentre l’altra è nera ed orgogliosa di esserlo, “impegnata” politicamente, tanto da dedicare tutta la vita alla lotta per i diritti umani e civili della sua gente. Entrambe hanno una grande personalità anche se all’inizio del testo Florence appare più ingenua e romantica. E poi c’è Donna, la figlia di Florence, una donna bianca tutta dedita alla famiglia e alle figlie e le numerose nipoti.
La vicenda è estremamente articolata e tocca in più punti, in maniera forse superficiale, diversi sottotemi che accennano al fenomeno della desegregazione scolastica, della gentrificazione urbana, dell’emarginazione e della violenza ma anche della perdita dell’identità familiare. A huge lie fa emergere una frattura netta tra due mondi e diversi periodi storici. Il lettore, infatti, viene continuamente traghettato in epoche diverse ad ogni cambio scena: dagli anni Cinquanta ai Settanta, Ottanta, Novanta fino al Duemilatredici. Non in linea temporale cosa che consente all’autrice di rimescolare i piani e le storie, creando una suspence che cattura l’attenzione grazie anche all’uso di cliffhanger a fine scena.
La struttura del testo è piuttosto semplice: due atti suddivisi in scene caratterizzate da ellissi temporali. Gli otto personaggi sono tutti declinati al femminile e legati tra loro da un fitto reticolo di relazioni che, a volte, risultano impenetrabili e poco credibili. Del resto la materia da padroneggiare è tanta! Pur muovendosi nel tempo Black like us si apre e si chiude a Seattle negli anni ’50 nella casa delle due sorelle Walker dove Florence annuncia a Maxine (siamo nella prima scena) di voler “passare per bianca” per sposare un uomo “bianco” che ignora le sue origini afroamericane e l’esistenza della sua famiglia (a huge lie, il grande inganno). In questo passaggio la donna afferra la possibilità di migliorare le sue condizioni di vita e di realizzare il suo sogno d’amore. Nella scena successiva nel 2013, le nipoti mentre svuotano la casa della madre, trovano dentro un cofanetto chiuso a chiave, foto e lettere della famiglia d’origine nera della loro defunta nonna che credevano bianca. Questo le mette in crisi originando tutta una serie di equivoci (comici) e di quesiti: perché la nonna tiene segreta la sua vera identità? Chi sono i parenti neri che non hanno mai incontrato? Qual è ora la loro vera identità? Cosa significa essere neri o mulatti?
MICHELLE: She must have, you know – passed.
AMY: She passed? What are we talking about, the 1800s?
MICHELLE: No, but sixty-something years ago? Pre-civil rights? It would have mattered back then.
SANDRA: But it’s not like they were from the South.
MICHELLE: You think racism only existed in the South? Exists?
SANDRA: So then Mom was what? Mulatto? An – octoroon?
[…]
SANDRA: I just want to know what we are!
AMY: We’re the same as we’ve always been.
SANDRA: No, we’re not. We’re part black. I mean, African-American. Which do you think we’re supposed to say? (realizing) Oh my god, this is going to be great for the kids’ college applications!
[…]
AMY: But why would Grammy do this? Why didn’t Mom ever tell us?
MICHELLE: Well, clearly Grammy kept it a secret. And who knows when Mom found out? If she even ever did.
SANDRA: Do you think Grampy knew?
AMY: We had a right to know.
MICHELLE: Maybe Grammy was ashamed.
SANDRA: In this day and age? Everyone’s mixed something. Hello, Obama? It’s so not a big deal.
AMY: It is a big deal! If you gave yourself two seconds to think about it outside of what it’s going to get you – it changes our whole – it throws everything about us into question. And it’s not just about being black, or “African-American”, or whatever, it’s – there’s been this secret. For generations. All that time we spent with Grammy. No photo albums, no family stories. Lies! This huge lie, our whole lives.
da: Black like us, Rachel Atkins, Original Works Publishing, ATTO 1, Scena 2, pag. 27-28
Due i momenti più eloquenti di tutto il racconto, da Bon Marché e da Safeway, dove le due sorelle si rivedono a distanza di decenni. In queste scene l’autrice è sapiente nel costruire dialoghi pungenti ed efficaci, dove i sensi di colpa, la rabbia e il dolore sono così veri, intensi e tangibili da non lasciare nessuna possibilità di riconciliazione. L’implacabile Maxine vede o tutto bianco o tutto Nero, o Giusto o Sbagliato senza lasciare alcun margine di compromesso a quella tonalità di grigio a cui sente di appartenere la sorella.
MAXINE: So what was supposed to happen when you arranged this sisterly get-together today?
FLORENCE: I guess I was hoping –
MAXINE: Because anyone can shop at the Bon Marché now. What if I’d just come in and seen you? Or what if I was working here too? Even I could get a counter job now, you know. Equal employment opportunity, thanks to the Congress of Racial Equality. Ever hear of it?
FLORENCE: Of course!
MAXINE: We finally got organized here. So we made that happen. I made that happen.
FLORENCE: I just need a little more time.
MAXINE: You’ve had thirteen years, Florence. Enough is enough. I’ve changed my mind about the Jean Naté. I’ll take my business elsewhere.
FLORENCE: Will you still meet me after my shift?
MAXINE: Why don’t you wait for thirteen years and see if I show up?
FLORENCE: Why does it always have to be all or nothing with you?
MAXINE: Because if there’s one thing I’ve learned in the past thirteen years, it’s that things really are one or the other. Black or white. Maybe on your side of the color line you can’t see the difference. But over here on my side, it’s crystal clear.
FLORENCE: But I’m trying to tell you – I don’t want to be on opposite sides. Can’t we find a way to meet in the middle?
MAXINE: No. We can’t. Because I know who I am, even if you don’t. (sings as she exits) Say it loud: I’m Black and I’m proud! Say it loud: I’m Black and I’m proud!
da: Black like us, Rachel Atkins, Original Works Publishing, ATTO 1, Scena 3, pag. 36-37
Interessante l’uso che la Atkins fa della musica, utilizzandola non solo a commento delle scene (Stevie Wonder, Wonder & McCartney) ma anche come vero e proprio elemento drammaturgico, connotando Maxine con il repertorio jazz e le canzoni afro americane, Florence fedele al suo amato West Side Story.
L’inizio e la fine del lavoro chiudono il cerchio ritornando al 1950, e a noi lettori resta l’idea che allora come adesso, la questione razziale non sia ancora superata.
Plays&CO | ricognizioni dal mondo della drammaturgia anglofona
Veronica Cumaro, giornalista e drammaturga. Nata a Udine, ha iniziato ad appassionarsi di teatro e cinema da giovanissima. Laurea al D.A.M.S. di Udine, Master in Storytelling & Performing Arts a Torino, partecipa al workshop in playwriting del Royal Court Theatre di Londra organizzato dal Piccolo Teatro di Milano. Si occupa di comunicazione ed organizzazione di eventi in ambito culturale e dello spettacolo. Collabora, inoltre, con la Scuola Holden di Torino, con diverse riviste on-line e con alcune compagnie di musica e teatro-danza.
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