Il Friuli è un forziere narrativo ricolmo di storie, personaggi e linguaggi. Questa rubrica propone, in ogni sua puntata, una vicenda che ha tutte le caratteristiche per prestarsi a essere una drammaturgia in potenza, uno spettacolo che non esiste (ancora).
L’ISPIRAZIONE
Tu e io, caro compagno drammaturgo, stavolta assumiamo lo sguardo contemporaneo, ispirati anche dall’articolo di Alessandro Di Pauli sul teatro “istantaneo” di Robert Schenkkan (“if theater is going to remain relevant, we must become faster to respond”).
Facciamo un ripasso dei temi dell’attualità, e ci accorgiamo che negli ultimi tempi abbiamo seguito con interesse, e con un’opinione ancora in costruzione, il dibattito sulle aperture festive degli esercizi commerciali. Rivedendo velocemente i quotidiani locali in cerca degli articoli sul tema, tra legittimi ragionamenti di natura economica e inevitabili innesti di sociologia, troviamo la nostra scintilla: un commento rende esplicita l’inquietudine che ci stuzzicava di nascosto:
“I centri commerciali come luoghi di aggregazione e di incontro, “vissuti” come piazze, ai quali va riconosciuto un ruolo sociale sostituendosi ai centri storici.”
Mentre ci grattiamo nervosamente gli avambracci, in preda a un’inspiegabile reazione allergica, concordiamo su un punto: che la commercializzazione degli spazi sociali sia una direzione già concreta nessuno lo può mettere in dubbio, la viviamo da decenni; che sia una realtà irreversibile, senza alternative, e che in quanto tale sia la corrente da seguire, può essere invece discusso. Ed ecco il nostro tema.
LE FONTI
Negli ultimi mesi il dibattito è attuale e molto intenso, di conseguenza, la pila degli articoli sul nostro tavolo è alta. E potremmo riempire una bibliografia enciclopedica con gli studi sociologici sui “non luoghi” o sui “terzi luoghi” – concetti spesso ridotti e ritritati per favorirne l’abuso.
Per percorso formativo e interesse personale ti suggerisco come riferimento “Le piazze del sapere – Biblioteche e libertà” di Antonella Agnoli. In questo saggio, l’analisi socio-culturale della commercializzazione dello spazio pubblico fa da base alla proposta delle biblioteche come nuove piazze.
“Luoghi come questi sono più che mai necessari perché, negli ultimi anni, gran parte degli spazi di questo tipo sono stati eliminati dalla commercializzazione o dal senso di insicurezza alimentato dai mass media. «Sedersi lì sulla panchina significa non farsi trascinare dalla corrente, non fare la coda a una cassa, non provarsi abiti, non indicare le vetrine. Non salire nemmeno sul tram quando arriva e si ferma lì davanti […]» ha scritto Beppe Sebaste, che ricorda ai suoi lettori: «Se la panchina rischia l’estinzione è perché è considerata pericolosa […] per la sua casualità e gratuità, che urta contro le norme della circolazione e del controllo sociale.»”
Fermiamoci alla prima parte, lo viviamo quotidianamente: qual è l’ultima volta che ci è capitato di proporre un incontro in un luogo estraneo da ogni forma commerciale? È vero che, con la spesa di un caffè, puoi fermarti al bar indisturbato per qualche ora – se i gestori sono simpatici – ma è anche vero che, seppur a un prezzo stracciato, assieme al caffè, hai comprato anche il tuo tempo in quel luogo. Non facciamone una questione di principio, perché non è da noi, però siamo incuriositi: dev’essere per forza così o si potrebbero costruire delle alternative? Potranno insomma esistere dei luoghi in cui stare per un po’ senza fare né consumare nulla o questa è una (non) attività destinata a rimanere relegata alla sfera privata della propria abitazione, tanto più che ora abbiamo tutti gli strumenti per ottenere tutto ciò che ci serve senza uscire?
GLI SPUNTI
Un esercizio funzionale a provocare spunti di drammaturgia è scegliere personaggi ben delineati e spostarli di contesto, farli stridere con l’ambientazione per far emergere – senza esplicitarla né quindi imporla – una riflessione. Come in una reazione chimica: mettere insieme elementi diversi e osservare che cosa succede, senza opinioni preimpostate.
Una sera d’inizio ottobre, in questa estate prolungata nell’autunno – altro motivo di inquietudine, ma di questo parliamo un’altra volta per non abbatterci completamente – mi è capitato di passare, in auto, in un paese della bassa friulana e di vedere un gruppo di anziani seduto fuori casa a chiacchierare in attesa della sera. Una visione mitologica per chi, come me, è troppo giovane per avere memorie quotidiane di quest’abitudine antica e per chi, come me, abita nel Friuli “nuovo”, azzerato dal terremoto del ’76. Ed ecco trovati i reagenti.
Mettiamo insieme questo emblema della passata socialità con il luogo per eccellenza delle nuove forme: il centro commerciale. Più volte già associato, nel dibattito pubblico, alle fasce più anziane della popolazione, anzi maldestramente consigliato come habitat naturale grazie agli indiscussi vantaggi: offre calore d’inverno e frescura d’estate; è costantemente sotto controllo e quindi è sicuro; concentra comodamente in un unico spazio le risposte a molte e svariate esigenze. I centri commerciali caratterizzano anche il nostro territorio, dai mega-poli fino ai giovani e prematuri relitti di piccoli complessi fatti soccombere dall’avanzata dei giganti. Non facendo parte della mitologia friulana ed essendo difficilmente allineabile con la mitizzata friulanità, il centro commerciale non è certo un protagonista ricorrente della produzione letteraria in lingua friulana, ma ricordiamo la sua funzione significativa in “La nebbia” di Franco Marchetta (non edito).
Quindi, che il centro commerciale sia un’ambientazione tipica della nostra quotidianità è un dato di fatto, ma che cosa succederebbe se sostituisse alla lettera la piazza nella sua funzione sociale ovvero se venisse utilizzato come luogo sociale saltando completamente il pretesto dell’acquisto o della consumazione? Sarà curioso osservare la reazione innescata.
PER ESEMPIO, UN INIZIO
2019, Sedean, une domenie di avrîl, soresere. Marie e Catine, 73 e 70 agns, come ogni sere di cincuante agns, a iessin di cjase cu la cjadree par sentasi a fâ cuatri cjacaris (simpri chês di cinquante agns) prin di lâ a durmî. Ma no cjatin nissun. Su la strade une code di machinis a va daûr dai cartei che a comunichin la gnove viertidure dal plui grant centri comerciâl de Furlanie, clamât “La Place”. Marie e Catine, si cjalin e, cence dî nuje, si cjapin su, cu lis lôr cjadrees, e si inviin viers il negozi. Une volte ientradis si fasin strade tra la sdrume di int, e, intun curidôr tra i negozis, si sentin su lis lôr cjadrees a fâ ce che a varessin fat in pais: cjalâ atôr e fâ une cjacarade.
BIBLIOGRAFIA
- “Aperture festive, maggioranza divisa” di Viviana Zamarian,«Messaggero Veneto», 13 settembre 2018
- Antonella Agnoli “Le piazze del sapere – Biblioteche e libertà”, Laterza
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